BARI – Giovanni Assi, consigliere nazionale di Unimpresa con delega a Welfare e Lavoro, i sindacati chiedono una proroga del blocco dei licenziamenti almeno fino al completamento della riforma degli ammortizzatori sociali. Una richiesta sensata?
«Inizierei facendo parlare i numeri che, come noto, non mentono mai: dall’inizio della pandemia ad oggi sono andati in fumo 814mila posti di lavoro. Molti pensano che, grazie al blocco, non sia stato perso nemmeno un posto e invece non è così. Anche l’Ue ha rimproverato l’Italia per questo. Siamo l’unico Paese con uno sbarramento assoluto che, però, penalizza alcune categorie al posto di altre».
Quindi, dal suo punto di vista, il Governo ha fatto bene a rimuoverlo…
«Sì perché in questo modo consente alle aziende di potersi riorganizzare senza rimanere ingessate in modo forzato. Un banale esempio può chiarire »
Prego.
«Una azienda ha bisogno di un tornitore ma non può assumerlo perché costretta, dal blocco, a pagare un saldatore che magari non serve. Questo è un doppio danno: per il tornitore che rimane per strada ma anche per chi resta in azienda perché magari l’assenza di alcune figure chiave impedisce di prendere commesse preziose. In questo senso lo sbarramento è deleterio»
È innegabile però che il blocco sia servito come misura-tampone…
«Certo ma sarebbe stato utile associarlo a delle politiche attive concrete che, però, il Governo non ha messo in campo né prima né dopo né durante. Nel mezzo della pandemia sarebbe stato meglio proporre alle aziende di non pagare i contributi per due anni a patto di non licenziare il lavoratore. In questo modo, avrebbe funzionato».
Nessuna delle novità previste negli ultimi decreti la convince?
«Nel Sostegni bis l’unico sussulto è lo sgravio contributivo di appena sei mesi per le nuove assunzioni. Un incentivo semestrale mi sembra un po’ poco per decidere di assumere una persona a vita all’interno di una programmazione pluriennale».
Secondo lei quale dovrebbe essere la strada?
«Dismettere l’idea per cui si va avanti solo con misure di tipo assistenziale. Bisogna invece intervenire sul mercato del lavoro, rendendolo più flessibile».
Siamo passati da quella strada e i problemi non sono mancati. Davvero serve flessibilizzare ancora?
«Bisogna trovare un punto di equilibrio. Se rendi flessibile il mercato, incentivando i contratti a tempo determinato, puoi bilanciare i periodi vuoti con robusti ammortizzatori sociali. In questo modo gli strumenti funzionano in modo virtuoso. Il modello è un po’ quello agricolo: si lavora in determinati periodi dell’anno, guadagnando bene, e nel resto del tempo si usano strumenti di compensazione».
Le grandi riforme hanno bisogno di dialogo. Al di là dei proclami, la politica vi ascolta?
«Imprese e sindacati hanno lo stesso problema: la politica non li ascolta. A volte, leggendo i provvedimenti, si intuisce chiaramente che chi li ha scritti non ha mai alzato una saracinesca in vita sua. Dunque, la volontà di non confrontarsi con chi lavora sul campo è il limite più grande di chi ci governa»