In una recentissima pronuncia, la Suprema Corte (n. 475 del 11 gennaio 2017) ha esaminato il caso di una lavoratrice che era stata licenziata dopo la nascita della figlia e prima che quest’ultima compisse il suo primo anno di vita.

La corte, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento della lavoratrice, ha ricordato che, in questa delicata fase della vita di una madre, ed ha precisato che soltanto la colpa grave può giustificarne il licenziamento altrimenti il datore di lavoro commette un abuso.

Infatti, la sentenza in commento riprende, nell’analisi dell’art 37 Cost., l’orientamento dettato in materia dalla Corte Costituzionale, che nella pronuncia n. 61 del 1991 parte dall’art. 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sulla “Tutela delle lavoratrici madri”, stabilisce che: “le lavoratrici che si trovino in stato di gravidanza o puerperio non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gestazione fino al termine del periodo di interdizione del lavoro previsto dall’art. 4 della medesima legge, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto di licenziamento – che opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza e puerperio – non si applica nei casi di colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto, di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta, di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto per scadenza del termine.”

Tale divieto che comporti un mero differimento dell’efficacia del licenziamento anziché la nullità radicale di esso rappresenta però una misura di tutela insufficiente rispetto alle direttive dell’art. 37 della Costituzione anche sotto un altro profilo.

La protezione cui fa riferimento la norma costituzionale, infatti, non si limita alla salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge tra madre e figlio; il quale rapporto – come ha affermato questa Corte – deve essere protetto non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente biologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino (sentenze nn. 1 del 1987 e 332 del 1988). Nel contempo, il principio posto dall’art. 37 – collegato al principio di uguaglianza – impone alla legge di impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie.

Pertanto, si legge in sentenza “gli arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità sono costanti nell’affermare che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti ai sensi dell’art. 2 della legge 1204/71; per la qual cosa il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno (ex multis, Cass., nn. 18357/04; 24349/10)“.
Sulla base di quanto appena detto, continuano gli ermellini affermando che il giudice di merito “ha erroneamente applicato l’art. 8 della l. n. 604/66, poiché la disciplina legislativa di cui al D.lg.vo n. 151/01 non effettua alcun richiamo alle leggi n. 604/66 e 300/70; la nullità del licenziamento è comminata quindi ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 151/01 e la detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo, prevedendo una autonoma fattispecie idonea a legittimare, anche in caso di puerperio, la sanzione espulsiva, quella, cioè, della colpa grave della lavoratrice